
Il cammino verso la parità di genere passa anche attraverso l’analisi della società in cui viviamo. Un’inchiesta del New York Times – pubblicata nel mese di luglio – ha analizzato 7 ambiti in cui si manifestano le disuguaglianze di genere, dalla formazione al lavoro, dalla politica al diritto alla salute, aggiornando anche gli ulteriori sviluppi registrati nel periodo di pandemia da coronavirus.
Nell’articolo ho preso in considerazione gli stessi temi per l’Italia e le tendenze sono purtroppo le stesse nonostante gli sforzi che da più parti si stanno facendo al fine di colmare i gap nella nostra società, a partire dall’Agenda 2030 dell’ONU per lo Sviluppo Sostenibile che pone come obiettivo 5 “Raggiungere l’Uguaglianza di Genere ed Emancipare Tutte le Donne e le Ragazze” fino alle leggi nazionali ed europee atte a garantire il progressivo raggiungimento della gender equity. Nonostante questi provvedimenti le disuguaglianze rimangono e le donne risultano ancora poco presenti nella sfera pubblica e nelle posizioni di vertice in ambito manageriale ed economico.
Quando alla base ci sono stereotipi – che sono diffusi in modo pervasivo in quasi tutte le culture moderne – tutti gli ambiti dell’esistenza ne sono coinvolti e ne subiscono le conseguenze in maniera più o meno grave, fino ad arrivare all’orrore della violenza di genere.
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Un mondo fatto per gli uomini e il gap nella tecnologia e nel lavoro
Il mondo è strutturato partendo da un certo tipo di persona e quella persona è un uomo. Di esempi se ne trovano diversi: le auto sono realizzate per proteggere gli uomini dagli incidenti, i cellulari sono disegnati sulla mano di un uomo così come i sistemi di riconoscimento facciale. Tutto parte dal presupposto che l’essere umano medio sia uomo. Da secoli succede questo, da Aristotele al Rinascimento e, purtroppo, anche ai giorni nostri. Certo non aiuta il fatto che la maggior parte delle persone che testano nuovi prodotti siano uomini che quindi potrebbero non considerare in maniera sufficiente le esigenze delle donne. Un modo per affrontare questo gap risiede sicuramente in una maggiore rappresentanza femminile in ambito tecnologico, a partire dalla formazione.
Nel mercato del lavoro, le aree STEM da sempre vedono una dominanza maschile. Nel mondo, la percentuale femminile occupata in ruoli STEM si aggira attorno al 24%, in ruoli manageriali scende al 19% (indagine Linkedin). Perfino negli Stati Uniti, presi spesso ad esempio, solo il 14% di tutti gli ingegneri e il 25% di tutti i professionisti IT sono donne.
E in Italia? Nell’ICT, le donne impiegate sono il 15% del totale e il numero scende al 13% per ruoli di direzione tecnica, ricerca, sviluppo e produzione.
Ricordiamo inoltre che in Italia il tasso di occupazione tra gli uomini laureati è pari all’83% mentre per le donne laureate è 74%: ben 9 punti percentuali di differenza, più elevato rispetto a Paesi come la Francia, la Gran Bretagna, o la Germania, nonostante le donne siano sensibilmente più istruite degli uomini. In generale, il nostro tasso di occupazione rimane tra i più bassi d’Europa e l’Italia è uno dei Paesi in cui la forbice tra i tassi di occupazione maschile e femminile è tra i più elevati.
Chi lava i piatti? Il gap del lavoro non retribuito
Dappertutto nel mondo, anche in paesi come Norvegia e Svezia, persiste un gap tra uomini e donne nell’ambito del lavoro non retribuito. Negli Stati Uniti le donne svolgono lavoro non retribuito per 4 ore al giorno, gli uomini 2,5, che diventano 546 ore all’anno in più. Anche se negli anni il gap è diminuito la sproporzione rimane. Cosa ne consegue? Meno ore spese per lavoro retribuito.
E in Italia?
La divisione dei ruoli all’interno delle coppie in Italia risente ancora di un marcato retaggio culturale. In generale è la donna a farsi maggiormente carico del lavoro familiare, di cura dei figli e incombenze domestiche. Al lavoro domestico, nella fascia d’età tra i 25 e i 44 anni, le donne dedicano 3 ore e 25 minuti al giorno, contro un’ora e 22 minuti degli uomini. Lo stesso vale per il lavoro riservato alla cura dei familiari conviventi, in particolare dei figli fino a 17 anni: 2 ore e 16 minuti al giorno è il tempo impiegato dalle donne, contro un’ora e 29 minuti degli uomini.
Anche se è senza dubbio in atto una progressiva inversione di tendenza, in generale sono però ancora marcate le differenze tra uomini e donne rispetto ai tempi di lavoro totale. Inoltre, mentre per gli uomini subito dopo il lavoro retribuito viene il tempo da dedicare a sé stessi e ai propri interessi personali e solo dopo il tempo da dedicare al lavoro familiare, per le donne invece subito dopo il lavoro retribuito viene il lavoro familiare, certamente non residuale.
In generale, seppur entrambi i partner lavorano, il lavoro domestico e familiare ricade in modo preponderante sulle donne anche se in una tendenza di diminuzione dei tempi ad essi dedicati.
«Un numero di fattori sta bloccando l’uguaglianza nell’impiego e il fattore che gioca il ruolo più importante è l’assistenza e la cura», afferma Manuela Tomei, Direttrice del Dipartimento OIL sulla Qualità del lavoro. «Negli ultimi 20 anni la quantità di tempo che le donne hanno speso per l’assistenza e la cura non retribuita e per il lavoro domestico è diminuita di poco. Per quanto riguarda gli uomini, la quantità di tempo spesa in assistenza e cura non retribuita è aumentata di soli otto minuti al giorno.»
Disuguaglianza economica: il gender pay gap
In Europa le donne guadagnano 85 centesimi per ogni euro percepito dagli uomini. Lo stesso avviene negli Stati Uniti. E’ come se in un anno le donne lavorassero per due mesi senza ricevere lo stipendio. La situazione sta migliorando, ma i progressi sono molto lenti: il gap è diminuito solo dell’1% in sette anni.
In Italia il divario è 5% al di sotto della media europea. Ma il dato non tiene conto di altri fattori determinanti che caratterizzano il nostro mercato del lavoro, come ad esempio il tasso di occupazione femminile, le diverse qualifiche professionali e le specificità del settore pubblico e privato. Le manager in Italia guadagnano in media il 23% in meno dei loro colleghi.
Le donne italiane, secondo un rapporto del Censis, rappresentano il 42,1% degli occupati complessivi del paese e il tasso di attività femminile è del 56,2% (gli uomini che lavorano sono il 75,1 per cento). In Europa, la Svezia è lo stato con il più alto tasso di occupazione delle donne che raggiunge l’81,2%: l’Italia è all’ultimo posto della classifica.
Tra l’altro, non è solo una questione etica ma anche economica. La “Womenomics”, l’economia al femminile, genera veri e propri moltiplicatori che producono effetti di crescita e contribuiscono allo sviluppo dell’intero sistema economico. La crescita dell’occupazione femminile genera maggiori consumi e maggiori entrate per lo Stato, in termini di fiscalità e contributi previdenziali. E’ stato calcolato che le perdite di PIL pro capite attribuibili ai divari di genere nel mercato del lavoro rappresentano fino al 10% in Europa. Le conseguenze dell’attuale situazione per l’Italia in particolare sono più che negative, perché non si tratta solo del sottoutilizzo della forza lavoro femminile, ma anche della sua componente più istruita. Nel recente rapporto di Eurofound (Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro) sul tema, si afferma infatti che siamo il Paese europeo che più avrebbe benefici da un aumento dell’occupazione femminile.
L’orrore della violenza domestica
Una delle minacce più grandi per le donne è la violenza domestica.
L’espressione “violenza domestica” designa tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima (Convenzione di Istanbul 2011). Una donna su 3 ha avuto un’esperienza di violenza domestica.
Negli ultimi anni si assiste ad un aumento della brutalità degli uomini: le violenze fisiche che causano ferite sono passate dal 26% al 40% e raddoppiano le donne che hanno temuto per la propria vita. L’ultimo report diffuso dalla Polizia di Stato, con i dati aggiornati al 2019, parla di 88 vittime ogni giorno: una donna ogni 15 minuti.
E il periodo del lockdown ha creato scenari ancora peggiori per le donne che vivono abusi in famiglia. Nel 2018 in America la violenza domestica ha riguardato oltre un milione di donne, mentre si registra un aumento anche delle violenze sessuali.
Anche in Italia l’allarme è stato lanciato fin dall’inizio del periodo di lockdown e ora i dati confermano i timori. Si prevedeva che per le donne maltrattate in famiglia la quarantena avrebbe coinciso con un aumento delle violenze: l’isolamento, la convivenza forzata e l’instabilità socio-economica nell’emergenza coronavirus sono fattori che rendono le donne e i loro figli più esposte alla violenza domestica.
Una rilevazione fatta dai centri antiviolenza D.i.Re (rilevazione statistica tra le 80 organizzazioni della rete) mostra che, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, le richieste di aiuto sono aumentate del 74,5%. C’è poi un altro dato che mette in allarme ed è il calo dei contatti con donne che non si erano mai rivolte alla rete prima: è un dato che sottolinea le difficoltà delle vittime di violenza a chiedere aiuto proprio perché sotto la continua minaccia del maltrattante. Dal 2 marzo al 5 aprile 2020 i centri D.i.Re sono stati contattati complessivamente da 2.867 donne, di cui soltanto 806 sono donne che non si erano mai rivolte prima ai centri anti violenza del loro territorio. Alcuni centri hanno avuto un numero di contatti superiore da 120 fino a oltre 300.
Alla base del ciclo della violenza stereotipi e pregiudizi. “Lo stereotipo per eccellenza – spiega Lella Palladino, presidente di D.i.Re – è l’idea della fragilità delle donne vittime di violenza. Mentre dovremmo raccontare la forza delle donne che sopravvivono in una relazione violenta e successivamente ne escono per ricostruire la propria vita».
Meglio non ammalarsi: il gap del diritto alla salute
Nel 1989 uno studio di riferimento ha concluso che l’aspirina assunta quotidianamente può ridurre il rischio di malattie cardiache. Persone coinvolte: 22.071 uomini e nessuna donna. E non è stato l’unico caso. All’inizio degli anni ’90, sono suonati i campanelli dall’allarme: molte delle conoscenze biomediche si basava su ricerche condotte in gran parte sugli uomini.
Nonostante i progressi degli ultimi decenni, le conseguenze rimangono profonde. Al giorno d’oggi, mentre entrambi i sessi sono generalmente inclusi negli studi clinici, i ricercatori non analizzano ancora regolarmente i loro risultati per rilevare possibili differenze tra i due. E le donne sono ancora sottorappresentate negli studi clinici nelle fasi iniziali. Numerose ricerche hanno inoltre rivelato che ci sono spesso differenze di genere importanti sia nella risposta ai farmaci sia nei sintomi comuni di molte patologie.
Il valore di queste differenze è emerso chiaramente dalla pandemia di coronavirus. I dati suggeriscono infatti che gli uomini muoiono di Covid-19 a tassi più alti rispetto alle donne. Ma i ricercatori sanno poco su come i sintomi e la progressione del Covid-19 possano differire tra uomini e donne. Mentre il Covid-19 sembra colpire più duramente gli uomini, altre malattie invece colpiscono in modo sproporzionato le donne e in genere tendono ad essere sottovalutate.
Negli ultimi anni, ci sono stati sforzi crescenti per integrare meglio le informazioni sulle differenze di genere nell’educazione medica ma gli esperti affermano che colmare completamente il divario della conoscenza di genere nella salute richiederà un “cambiamento culturale nella scienza” e nella cultura in generale.
Per quanto riguarda l’Italia, la medicina di genere sta facendo progressi, sia dal punto di vista clinico che delle politiche.
Da qualche anno quasi tutti i convegni delle varie specialità mediche prevedono almeno una relazione sulla medicina di genere e in diverse reti cliniche vengono istituite Commissioni per approfondire l’influenza di genere nelle diverse patologie. Dal 2013 in particolare si evidenziano interessanti sviluppi: le Aziende sanitarie attive in questo ambito sono sempre più numerose e le Università hanno iniziato a istituire cattedre dedicate al tema di medicina di genere.
Tuttavia nessuna delle proposte di legge in materia ha concluso l’iter parlamentare. Un futuro testo di legge attento, da un lato, alle posizioni degli organismi internazionali che già confermano la validazione scientifica della medicina di genere e, dall’altro, concentrato sull’attribuzione di ruoli e scadenze, delineando tappe vincolanti, probabilmente potrà rappresentare un concreto passo avanti verso un equo diritto alla salute.
Donne in politica e nelle posizioni apicali
Le donne in Italia rappresentano oltre la metà della popolazione, ma occupano solo un terzo delle cariche politiche nazionali e meno di un quinto di quelle locali.
Alcuni dati – In settant’anni di storia repubblicana nessuna donna ha guidato il governo né è mai stata eletta Presidente della Repubblica. Abbiamo avuto due Presidenti della Camera e oggi abbiamo una Presidente del Senato. Nel Parlamento italiano si è passati dal 3,7% di presenza femminile nel 1946 al 15,8% nel 2006 e si arriva al 35% di presenza alla Camera nel 2018, che però non si traduce in analoga rilevanza.
Nel 2012 sono state introdotte due importanti misure, applicate a partire dalle elezioni amministrative del 2013 quali l’imposizione di una quota di lista e la doppia preferenza di genere così come sono entrate in vigore nuove norme per la composizione di liste elettorali, Consigli comunali e Giunte che garantiscono la rappresentanza di entrambi i sessi, con regole diverse a seconda del numero di abitanti.
Dall’ambito politico il discorso si può allargare a quello economico. Anche qui per avere donne nei consigli di amministrazione delle società quotate o controllate dallo Stato ci è voluta una legge, quelle sulle quote rosa, che obbliga alla nomina di almeno un terzo di donne nei cda.
Questi dati evidenziano quanto sia lontana la parità numerica e anche il limite nella rappresentanza degli interessi delle donne. Ad esempio in America, negli unici 5 Stati con rappresentanza femminile oltre il 40% le donne hanno saputo portare avanti importanti istanze in ambito di violenza domestica che hanno condotto a cambiamenti strutturali.
Ben si capisce che, nonostante i dati in crescita, il problema nelle posizioni apicali rimane. E se ancora ci sorprendiamo di vedere donne ai vertici si deve tornare ad un discorso culturale più ampio e andare a lavorare su quelle barriere ancora alte – vedasi stereotipi di genere – che scoraggiano le donne, arrivando ad autoescludersi.
Doppio standard nella bellezza
Michelle Obama, nel libro rivelazione “Becoming”, afferma “Non mi sarei mai aspettata di assumere altri per mantenere la mia immagine, e all’inizio l’idea era sconcertante. Ma ho scoperto rapidamente che oggi….è quasi un requisito, una tariffa integrata per il nostro doppio standard sociale “. E se i servizi di curatori d’immagine personali sono certamente un privilegio accessibile a pochi, tuttavia la maggior parte delle donne, anche senza funzioni pubbliche, sa che in una società ossessionata dalle apparenze, le donne sono giudicate più duramente rispetto agli uomini nel loro aspetto ed è quello che emerge da diversi studi: la qualità più apprezzata nelle donne risulta l’attrattiva fisica, seguita da gentilezza e intelligenza, diversamente dagli uomini.
Il tema della bellezza ha risvolti importanti anche nel mondo del lavoro. Qui alcune ricerche riportate dal New York Times. Uno studio del 2016 ha rivelato che le donne che hanno prestato più attenzione al loro aspetto hanno guadagnato il 20% in più rispetto alle colleghe che hanno dedicato meno tempo alla cura della persona. Ma c’è il rovescio della medaglia. In uno studio del 2019, gli intervistati a cui sono state mostrate le foto dei dirigenti aziendali hanno giudicato i manager donna attraenti come meno affidabili. Quindi? Le donne dovrebbero mantenersi in una via di mezzo di attrattiva ma non troppo, raffinata ma non esagerata! Questo emerge chiaramente nel mondo della politica, dove il look diviene una scelta strategica, che può anche essere orientato in direzione contraria. Un esempio significativo è la cancelliera Angela Merkel: scegliendo abiti ripetitivi, sposta l’attenzione dalla donna al ruolo, con il risultato di un rafforzamento dell’autorevolezza.
E come per tante altre forme di discriminazione, le donne già emarginate sono doppiamente colpite. E’ il caso della discriminazione relativa all’obesità: alcune pubblicazioni hanno rilevato come colpisca con maggiore intensità le donne rispetto agli uomini. E’ di questi giorni il titolo di un magazine argentino che descrive la principessa 16enne olandese Catharina-Amalia “orgogliosamente plus-size”.
Evidentemente esiste un problema: se il dovere della bellezza sembra interessare entrambi i sessi tuttavia è innegabile che la donna risulti molto più vulnerabile rispetto all’uomo e che risenta maggiormente degli imperativi culturali e delle pressioni anche in ambito professionale.
Le diseguaglianze ci sono, i nodi da sciogliere sono tanti, alla base stereotipi derivati da un retaggio culturale che si fa sentire pesantemente. Ma in molti ambiti qualcosa si sta muovendo e il tema della parità di genere entra nelle agende di molte aziende e, anche se i passi avanti sono lenti e faticosi, esistono casi virtuosi che si auspica siano di esempio.
Chiudo quindi con una nota positiva: è di qualche giorno fa la notizia che, in Poste Italiane –primo datore di lavoro in Italia con 130 mila dipendenti – la presenza di donne è pari al 54% e tra quadri e dirigenti è il 46%. Sono i risultati di un lungo cammino che non è ancora finito, prossimo step la parità di salario a parità di ruolo e mansione.
Obiettivo chiave del percorso: la valorizzazione della persona.